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10 prodotti tipici toscani

 
La Finocchiona è il salume più tipico e caratterizzante della cucina toscana. Dal sapore unico grazie all’aroma di finocchio che viene utilizzato in semi e/o fiori nell’impasto e dalla consistenza morbida. La combinazione delle migliori carni italiane certificate e la ricetta artigianale danno vita alla Finocchiona IGP che riporta obbligatoriamente sulla confezione la sigla IGP oppure la scritta ‘Indicazione Geografica Protetta’. Va assaggiata con il pane toscano.

La Cinta Senese, razza dalle antiche origini nota la sua robustezza e adattabilità all’allevamento allo stato brado nel bosco o nel pascolo. Si nutre dei frutti del bosco, di erba e cereali. Le particolarità territoriali determinano le caratteristiche uniche dell’alimentazione di questo animale determinando il gusto della carne che viene tutelato da una DOP, o Denominazione di Origine Protetta.

Un animale che pesa in età giovane 40-50 kg arriva a pesare fino a 300kg in età adulta. La carne è molto versatile, si utilizza sia nella versione fresca, cucinata alla griglia, in padella, allo spiedo o al forno, ma lavorata anche come i salumi: dalla salsiccia fresca dal prosciutto, dal buristo alla soppressata, il capocollo, la pancetta o la spalla. E come non assaggiare il Ragù di Cinta Senese? Pappardelle o penne sono perfette per gustarlo.

Il Lardo di Colonnata, è un pregiatissimo salume ad indicazione geografica protetta (IGP), il cui nome trae origine dell'omonimo paesino collocato sugli aspri pendii Alpi Apuane, nel comune di Carrara. Prodotto con lardo di suino, viene stagionato in conche del pregiato marmo di Carrara, dove acquisisce tutta la sua esclusiva bontà per l’azione del tempo e per la preziosa salatura a cui è sottoposto dalle mani di sapienti ed esperte maestranze. Il suo sapore è delicato e fresco, quasi dolce, arricchito dalle erbe aromatiche e dalle spezie usate nella salatura di lavorazione.

Le conche, precedentemente strofinate con aglio, sono conservate in ambienti a temperatura e umidità controllate, così che il prodotto finito assuma caratteristiche uniche. Non potranno comunque mancare per la stagionatura il sale marino, l’aglio massese fresco, il rosmarino, i chiodi di garofano, la noce moscata, la cannella, il pepe nero macinato e l’anice stellato. La vasca piena fino al colmo viene coperta e, dopo attente verifiche periodiche, viene riaperta dopo un periodo variabile dai sei ai dieci mesi più tardi e comunque a stagionatura ultimata.

Il miglior modo di gustarlo è semplicemente a fette: assaggiatelo comunque senza pane, potrete apprezzare pienamente la complessità ed eleganza di questo salume dal sapore piuttosto unico. E mentre gli altri salumi toscani sono perfetti per gli abbinamenti con il vino rosso a base di Sangiovese, dove l’acidità spiccata che caratterizza l’uva si bilancia perfettamente, il Lardo di Colonnata abbinatelo alla bollicina, meglio Metodo Classico, possibilmente piuttosto secco e complesso.

Il Salame Toscano è un insaccato stagionato di carne suina con l’utilizzo delle spezie, dalla consistenza compatta, dal profumo e dal sapore molto intensi. Sono utilizzate le parti magre del maiale (prosciutto, spalla, collo), vengono tritate finemente e unite al grasso ricavato dalla regione dorsale tagliato a cubetti per poi impastare il tutto con gli aromi: sale, pepe in grani, vino rosso, aglio. Viene insaccato in budello e la stagionatura dura dai 20 giorni ai 12 mesi a seconda delle sue dimensioni. Perfetto da essere gustato con il pane toscano e il vino rosso a base di Sangiovese.

L'Olio Extravergine di Oliva (EVO) Toscano IGP, esprime forte autenticità, tipicità e legame territoriali. Certificato dal marchio comunitario IGP (Indicazione Geografica Protetta) viene sottoposto alle regole di un severo disciplinare di produzione. Per facilitarne riconoscimento viene contrassegnato con apposito bollino Toscano IGP. Indubbiamente è uno dei alimenti più apprezzati sul panorama enogastronomico mondiale.

Ha un sapore deciso, intenso, trova perfettamente il suo impiego nella cucina tipica toscana, dove sapori semplici, genuini, ma ben presenti valorizzano le materie prime. Per gustarlo al meglio utilizzatelo a crudo: semplicemente sul pane toscano, sulla bruschetta, sulla panzanella, sulla bistecca, sulla pappa al pomodoro, non può che esprimersi al meglio e regalarvi la pienezza e freschezza dei suoi sapori. Usatelo a crudo!

I Pici sono un tipo di pasta generalmente fatta a mano, simili agli spaghetti ma più larghi, tipici del sud della Toscana, in particolare della val d'Orcia, della val di Chiana, del Monte Amiata. La massima espressione territoriale: Pici all’Aglione. Abbiamo proposto anche una ricetta rivisitata Pici all'Aglio. L’origine del nome si perde nel tempo e molte sono le ipotesi formulate riguardo alla sua etimologia. Alcuni la fanno risalire addirittura ai tempi dell’antica Roma e alla figura del mitico Apicio, l’autore nel primo secolo del “De Re Coquinaria”. Secondo altri, il nome dei Pici è legato alla località di San Felice in Pincis, nei pressi di Castelnuovo. Per altri ancora il nome Pici deriverebbe dal verbo “appiccicare”, per il modo in cui vengono tirati a mano.
 
A testimonianza della loro antichissima storia, un affresco nella “Tomba dei Leopardi” a Tarquinia mostra che gli etruschi si cibavano di un piatto molto simile ai Pici. Una ciotola colma di lunghi fili di pasta. Saranno stati i progenitori dei Pici, degli spaghetti? E se l’antica terra di origine del nostro piatto nazionale fosse proprio la Toscana? Chissà, rimaniamo con questa domanda irrisolta e procediamo oltre.

Classica ricetta della tradizione culinaria toscana sono i Pici all’aglione della Valdichiana, che non è semplicemente un piatto preparato con l’uso abbondante di aglio ma richiede l’uso di una tipologia specifica: Aglione della Valdichiana DOP, tanto che nel gennaio 2017 è nata l'associazione per la tutela e la valorizzazione dell'aglione (Allium Ampeloprasum var. Holmense) della Valdichiana per volontà di 23 produttori e 9 amministrazioni comunali.

I Cantucci, sono dei dolci tipici la cui origine è rivendicata da molte importanti città toscane da Prato a Siena, per indicare le più conosciute, ed è fatta risalire intorno al XVI secolo. Per alcuni il nome deriva da “cantellus”, che in latino significa “pezzo o fetta di pane”, ovvero una galletta salata di cui in guerra disponevano i soldati romani. Per altri il termine cantuccio trae origine da “canto”, angolo, piccola parte che fa riferimento al formato di taglio. Questi squisiti biscotti li troviamo fin dalla seconda metà del ‘500 presso la corte dei Medici pare ancora nella versione senza mandorle.

Circa un secolo dopo l’Accademia della Crusca elabora la prima definizione di “cantuccio” indicato come “biscotto a fette, di fior di farina, con zucchero e chiara d’uovo”. Soltanto sul finire del XXIX secolo, nella versione oggi più diffusa con le mandorle, i cantucci iniziarono ad essere prodotti in tutta la regione che nel 2016 ha ottenuto il riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta, IGP riferito all’intero territorio amministrativo.

La tradizione toscana vuole che il cantuccio venga consumato “inzuppandolo” nel Vinsanto, vino dolce tipico del territorio. Ma per favore, non fatelo con degli ottimi cantucci e un Vinsanto di qualità, piuttosto accompagnateli. Apprezzerete al meglio sapori di entrambi senza devastare il lavoro artigianale di produttori che mettono amore, passione e impegno nelle loro creazioni.

I Ricciarelli di Siena, la cui storia è ricca di un fascino ai confini della leggenda, sono dolcetti da sempre preparati a Siena e nel territorio circostante. Si ritiene che la loro origine sia strettamente correlata al marzapane e all’Oriente da cui giunse nelle corti d’Europa a partire dal XXV secolo. Ma nella città del Palio come mise piede il marzapane? Secondo le fonti storiche più accreditate il marzapane era stato portato a Siena come in tutta l’Europa dalla città birmana di Martapan e da qui l’origine del nome; secondo altri, il nome di questo dolce deriverebbe dai contenitori tipici in cui veniva conservato in arabo chiamati “mauthban”.

Qualunque sia l’origine del nome del marzapane vi starete chiedendo cosa c’entri tutto questo con i Ricciarelli. Nel nostro racconto entra in scena la figura di Ricciardetto Della Gherardesca che, secondo la leggenda, portò questi dolci, di forma “arricciata” come le scarpe di un sultano, a Siena di ritorno dalle Crociate. La ricetta di queste dolcezze venne tramandata negli anni, anzi nei secoli, arricchita secondo la “nuova” e vincente versione senese con la copertura di zucchero come avveniva nel Panforte.

Riguardo al Panforte, o Torta di Siena, si potrebbero spargere fiumi d’inchiostro. Consumato soprattutto nel periodo natalizio, quell’irresistibile impasto di mandorle, miele e spezie, rappresenta una vera delizia per gli italiani e per tutti coloro che hanno la fortuna di assaggiarlo. Quasi sicuramente è il più noto e il più antico dei pani speziati e riguardo alla sua origine, da collocarsi nel tardo medioevo, si narra che il primo esempio di panforte fu prodotto da Berta, una monaca che preparò una focaccia impastando miele, farina e frutta candita, insieme ad un’ampia varietà di spezie tra le quali zenzero, cannella e la noce moscata.

Dal Medioevo la ricetta del panforte non ha subito grandi mutamenti e tra le varianti più note e più apprezzate ricordiamo quella al bianco e quella al cioccolato. La prima, caratterizzata dalla finitura di zucchero a velo, fu preparata per la prima volta in onore della regina Margherita di Savoia giunta a Siena nel 1879 in occasione del Palio e da qui il dolce è detto anche Panforte Margherita.
Panpepato invece è una variante del panforte dove cambiano leggermente gli ingredienti. Assaggiatelo con formaggi erborinati: un ottimo pre dessert o alternativa al dolce e si sposano alla perfezione.

Le Copate. Secondo la tradizione popolare il primo passo che portò “all’invenzione” delle Copate deve attribuirsi alle monache di Montecelso, giù note per la nascita del Panpepato. Queste ingegnose sorelle, avuta notizia che le “colleghe” del Convento di San Baronto a Lamporecchio (siamo sempre in Toscana ovviamente…) producevano ostie religiose rendendole più morbide e gradevoli con l’aggiunta di piccole dosi di miele, ispirate dalla Badessa rielaborarono la ricetta accoppiando due ostie tenute unite da un sottile strato di miele. Questi dolcetti, nei primi tempi conosciuti come “nebulae”, meritarono subito per la loro bontà un posto d’onore nei giorni di festa.

Si giunse definitivamente alle copate nella versione oggi conosciuta e apprezzata con l’illuminato intervento di un monaco dell'Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, che mescolò insieme lo zucchero, il miele e gherigli di noce tostati e triturati, cuocendo infine il tutto a fuoco moderato. Una volta raffreddato il composto, divenuto scuro per la caramellizzazione, venne spalmato fra due ostie. Nelle versioni successive venne aggiunto il cacao e in tempi più recenti i tuorli montati a neve che rendono il composto quasi bianco.

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